Franco Cercone, LA MADONNA CHE SCAPPA IN PIAZZA A SULMONA, Edizioni Qualevita, 2007, pp. 160,00 - euro 10,00

 

PREFAZIONE dell'antropologo Alfonso M. DI NOLA

Mi pare che Franco Cercone obbedisca ad una modestia eccessiva ascrivendo ad un intento di pura informazione turistica queste pagine che, per la capacità di sintesi storica, per la lettura antropologica e per la ricchezza di fonti, divengono un documento prezioso relativo ad uno degli episodi più interessanti della storia spirituale abruzzese.
La saggezza interpretativa, che viene dalla serietà filologica garantita dal modello di Pansa, cui le indagini di Cercone sono costantemente legate, si cala nel tentativo ottimamente riuscito di costruire dei tre momenti della settimana santa sulmonese un quadro unico e funzionale. Cerimoniale dello struscio, processione del venerdì, rituale della Madonna che scappa in piazza si fondono in una sequenza solidale che esprime, attraverso la forma della sacra rappresentazione, distribuita, come quelle medioevali, in più giornate, il grande mistero cristiano della morte e della resurrezione. Forse la fase che meglio trascina in sé compartecipazioni di popolo e che non è veicolata dalla distanza spettacolare è quella dello struscio, nel quale le cadenze gestuali, il passo strisciante (poi rinnovato nel grande corteo del venerdì dalle confraternite), il tono dimesso delle visite ai sepolcri sottendono una ritualità contadina e pastorale del morire e del lenire il lutto, proprio come negli accompagnamenti funebri. Il corpo medesimo, assoggettato alla norma di un’ambulazione di abbandono e di attesa, condensa, a mio parere, i vigori di una tragedia avvenuta e consumata, cui la pietà delle nostre genti è convocata da antiche consuetudini: il Cristo giacente nel suo livore di morte, circondato dal grano bianco, quasi a memoria degli antichi giardini di Adone, si fa, nella folla «strusciante», il prototipo drammatico di tutti quanti sono piegati all’arco della vita, ma anche di tutti quanti, qui, in queste terre, soffrono nell’emigrazione e nella distanza degli affetti e delle tradizioni, in una morte crescente dei propri succhi culturali.
Questo compatire in senso paolino, questa intensità di partecipata sofferenza, Cercone la vede continuata e spostata nell’alta solennità della processione del venerdì, certo uno degli scenari più potenti e conturbanti cui mi sia stato dato di assistere. La gestione e l’origine del rito, con l’esplosione dei suoi rossi e dei suoi neri e con la selva delle sue lampade, sono forse egemoni, appartengono ad una tecnica del piangere e del gridare la morte che è stata filtrata attraverso il gusto sottile delle confraternite nobili. Ma la puntualità dei movimenti, la suggestione dei cori, la ieraticità di tutto l’impianto drammatico hanno la capacità di coinvolgere ogni spettatore, che passa dal delirio di dissoluzione, espresso dalle folle secondo i demartiniani opposti del relato e dell’irrelato, ad una pacificazione nella morte emergente nella sua immane grandezza come tragedia del mondo.
Anche se dotta nella sua radice, forse, come acutamente avverte l’Autore, di istituzione gesuitica, la corsa in piazza si fa ambito di una fruizione popolare, nella quale la dromenia della vergine madre, ancora dolente, poi trionfante, trasferisce sul piano di una semiotica spettacolare, non solo la risalita del figlio divino dalla tomba, ma la primaverile esplosione della vegetazione e la finale libertà di ogni creatura.
Certo, se ci si appella ad una nozione rigida di teatro e di rappresentazione, queste tre fasi possono anche apparire estranee ad essa. Ma vi si inseriscono in tutto il significato spettacolare‑sacrale, quando si accetti il principio che il vero teatro di origine è convocazione della folla intorno a temi esistenziali e fondamentali, e in questa convocazione la distanza fra attore e spettatore si annulla in un vissuto unitario per il quale ogni partecipante è coinvolto nel dramma, non solo per la ricezione dei segnali esterni e visivi, ma per il suo sé messo in crisi e salvato dalla crisi. L’analisi di Cercone conferma ancora una volta la natura religiosa del primo teatro, che si esprime in segni che appartengono, per natura, alla liturgia, da quello Officio del quarto milite, conservato a Sulmona in un esemplare del XIV secolo, al tropo del Quem quaeritis, nel quale i celebranti del giorno di resurrezione rendevano in gestualità drammatiche la visitazione delle Marie al sepolcro, all’interno delle chiese.
E da questa storia antichissima, che l’Autore ha ricostruito nell’unità del suo ritmo, non è distante la realtà del tempo che corre. Le sequenze della passione non sono defunta immagine che il turismo tenta di riproporre, ma realtà profonda, poiché, anche quando i simboli e le dramatis personae fossero mutati, resta la nostra precarietà e, accanto ad essa, palpita la nostra speranza. Né siamo riusciti ad inventare per il nostro tempo un linguaggio diverso da quello che i padri ci hanno trasmesso.
Alfonso M. DI NOLA

 


INTRODUZIONE

Radici di una Sacra Rappresentazione

di FRANCO CERCONE

Sulmona è famosa non solo per aver dato i natali ad Ovidio Nasone oppure per i suoi insuperabili confetti, ma anche per una sacra rappresentazione che si svolge la mattina di Pasqua nel grandioso scenario di Piazza Garibaldi e denominata la Madonna che scappa in piazza.
Televisioni nazionali ed estere fanno ormai a gara per accaparrarsi i migliori balconi donde effettuare le riprese, ma queste non sempre, per la nitidezza, riescono a reggere il confronto con il bellissimo cortometraggio girato alcuni anni fa da Folco Quilici e trasmesso in quasi tutte le sale cinematografiche italiane. Sulla rivista tedesca Film‑Video (München, 1 aprile 1981) è apparso poi un servizio fotografico di Massimo Pacifico, dal titolo suggestivo Auferstehung im Laufschritt («Risurrezione a passo di corsa»), che ha notevolmente contribuito a far conoscere meglio la manifestazione in Germania. Grande risonanza ha avuto inoltre in America un articolo di Susan Lumsden apparso sul “New York Times” il 7 aprile 1985 dal titolo In Sulmona, Easter Drama in the Piazza. Per quanto riguarda l’Italia non v’è praticamente un quotidiano che non abbia pubblicato servizi sulla Processione del Venerdì Santo e sulla corsa della Madonna in Piazza. Una bella pagina dedicata alle due manifestazioni è contenuta tuttavia nell’opera di Guido Ceronetti Un viaggio in Italia (Einaudi 1983), pagina che per l’intensa emozione che suscita nel lettore, merita di essere riportata integralmente:
«Gremitissima, la piazza di Sulmona... I cristiani riempiono tutto, balconi cornicioni finestre archi terrazze scalinate, tutto è moltitudine compatta, qua e là ombrellata da palloncini. Mi spiegano quel che sta per succedere. Non sarà che un attimo.
La Madonna, tutta in lutto, è chiusa in casa per il dolore della morte del figlio. Arriva San Pietro e gli dice che è risorto. La Madonna non gli crede e rifiuta di uscire. Arriva anche San Giovannino e conferma la notizia: a lui la Madonna crede. Esce vestita a lutto, ancora Addolorata, non del tutto persuasa, lentamente, quasi di malavoglia. In fondo alla piazza, chiusa dall’acquedotto, c’è il Figlio risorto che l’aspetta. La Madonna finalmente lo vede. Subito getta il mantello nero e riveste il verde, compiendo di corsa i non più di cinquanta metri che la separano dal Figlio col quale anela ricongiungersi.
Gli attori sono simulacri, portati a spalla da portantini bianchi.
Tutto si svolge secondo l’attesa della moltitudine. L’uscita lentissima dell’Addolorata è seguita con spasimo: ‑ La Madonna non l’ha ancora visto... ‑ L’ha visto! ‑ E la corsa di quei bravi portantini diventa un volo, che la folla sostiene senza un grido ma con la forza del suo respiro. Il mantello nero è caduto, il verde vola tra spari di mortaretti verso l’altro simulacro immobile, che per tutti ha realtà di Figlio e di morto che ha vinto la morte. È finito.
In quell’attimo l’infinito del Numinoso ha scaricato sopra la piazza tutta la sua potenza. Qualcosa è realmente accaduto, che è fuori della storia e del tempo: il puro ritrovamento dell’ancestrale, del legame col tempo sacro. Si piange di gioia, per la tensione sfogata. Non è stato uno spettacolo, ma un rito autentico, tra i palloncini, i torroni, le arachidi tostate... La corsa della Madonna è una immissione di sublime nel quotidiano, di forma nell’amorfo, di resurrezione nella morte. È certo che senza quell’attimo, se per un motivo qualsiasi, per un comando impuro e crudele la cerimonia fosse rimasta al lutto dell’Addolorata, troncata ai primi passi fuori casa della Madonna ancora incredula, il lutto sarebbe rimasto stampato nei cuori, una traccia in tutti di deicidio e di morte. Tutti avrebbero maledetto, invece di benedirlo, questo giorno. Ora la primavera può avere inizio, i semi aprirsi, i mandorli farsi bianchi. Ma nonostante la certezza rituale, fino all’ultimo la folla ha dubitato. Qui è il tragico del rito: si sa che così sarà, eppure c’è come un residuo di terrore che potrebbe non esserci stata la resurrezione, che la Madonna in lutto non ritrovi il Figlio e rientri in casa più che mai coperta di velo nero. Solo quando i piedi dei portantini cominciano a correre verso l’acquedotto, il respiro si allarga e il dubbio doloroso diventa risonante certezza.
Subito dopo la folla comincia a disperdersi, mentre i quattro simulacri, dopo aver vissuto un attimo che è alfaomega di eternità, tornano a essere statue da processione, precedute dal vescovo, tra le facce allegre dei Confratelli della Tomba che ne hanno cura. C’è in tutto e in tutti un’allegria straordinaria... Hanno vinto Tanatos... Cristo ha vinto la morte... Tutto è qui: il cuore umano vuole il ciclo, non la linea, la ripetizione e non la novità, l’eternità e non la storia, catalogo di morte. Un venditore di palloncini fa affari incredibili, centinaia di mani si tendono a offrirgli moneta, lui li gonfia con un’enorme bombola a ossigeno e colora la piazza. Circolano meravigliose Zingare in abiti da parata tirati fuori dai cassoni, dal limo gangetico, dalle caldaie raffreddate, tutte esibiscono ogni specie di pendagli, orecchini d’oro lunghi come proboscidi, fazzoletti di seta abbaglianti, le giovani ebbre del loro culo e del loro petto da Anna Perenna, e per un giorno non mendicheranno, gli uomini non trufferanno, i bambini non mentiranno. Una bambina vestita come una regina mi grida ridendo: sei brutto! Ha ragione: sono brutto perché non ho un abito da festa, né un orologio d’oro con la catenella. In breve la piazza è deserta, dopo il lutto e la liberazione dal lutto e dalla morte conviene ristorarsi, tutti a mangiare, zingari e gagè, tutti a leccare il piatto dove (non sanno) il sacrificio del Verbo continua perché la morte non irrompa. Ultimi petardi... un suono di banda morente... la superflua processione ha terminato il giro, anche per la Confraternita della Tomba è il momento di seppellirsi nei maccheroni.
NOLITE SOLLICITI ESSE IN CRASTI-NUM  ammonisce la grande scritta nella Casa di Riposo. Qua dentro, l’ala del numinoso non è passata, nessuno ha cambiato faccia come non ha cambiato abito. Grande orto e verziere, con mandorli splendenti come concubine di Salomone. Vecchi che parlano, ma sordissimi. Piccioni e cornacchie. Il più malandato, che sta rientrando con un paio di scope, è il più furbo: ‑ Giovanotto, adesso mi date cinquecento lire per un bicchiere di vino. Grazie. E buona Pasqua.
Nei ristoranti di Sulmona le cavallette di Joel stanno spogliando e spolpando tutto. La pancia saluta la vittoria su Tanatos riempiendosi e crepitando. Io sono l’Eternità, dice l’intestino. È la Fame, infatti, quel che ci fa credere con più forza immortali. Dappertutto è un vero convito sacro. Mangio anch’io, molto tardi, fra l’esaurirsi della cucina e le braccia stanche, perché la partecipazione intensa al rito sulla piazza mi ha messo fame.
Non sono che resti. Un tempo l’intera Settimana Santa era a Sulmona un’unica grande rappresentazione sacra, che culminava nel riconoscimento del Figlio risorto; restano la processione del Venerdì Santo e la corsa della Madonna il giorno di Pasqua. I confetti sono invenzione dei conventi, erano offerti come ex voto... Le monache, spiega un brav’uomo con dentiera vacillante a una comitiva di napoletani, fabbricavano dolci e davano feste per attirare le ragazze nobili nei conventi... La loro specialità erano i mostaccioli, biscotto con pasta di mandorle impastato nel mosto cotto, e anche le ciambelline dette le tisichelle... Il torrone, invece, è venuto dalla Spagna... (Con quei denti non potrà mangiarne).
L’Oratorio imbiancato sull’angolo di via della Cona si gode la frescura del ricino di Giona. Altro Giona è nel portale di san Francesco della Scarpa.
Col trenino che va a Terni ritorno all’Aquila».

Alla Madonna che scappa fa da cornice una folla impressionante di spettatori, molti dei quali sono turisti e studiosi provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa. Per ogni sulmonese «Pasqua non è Pasqua» se non ha assistito alla corsa della Madonna e chi, in tale giorno, è altrove, si raccoglie in se stesso e per un momento – come ha cantato il poeta peligno Vincenzo De Meis – la menda li strapòrte miezz’alla festa.
Se si escludono due brevi pagine del de Nino, di cui parleremo in seguito, ed un capitolo dell’opera La Città di Sulmona sulle Confra-ternite cittadine, dello storico sulmonese F. Sardi de Letto, nessun studio particolare esiste su tale importante manifestazione di religiosità popolare, arricchitasi negli ultimi tempi di particolari contenuti antropologici in conseguenza delle profonde modificazioni sociali ed economiche verificatesi a Sulmona e nella Conca Peligna, area dove è in atto un intenso processo di industrializzazione che va eliminando ogni traccia della struttura agricola preesistente.
Se abbiamo privilegiato gli aspetti socio‑ religiosi della manifestazione, non abbiamo tralasciato d’altra parte di evidenziare quelle notizie di carattere storico che ci aiutano a comprendere la sua evoluzione attraverso il tempo. La Madonna che scappa in piazza non rappresenta infatti un tema isolato, ma invece l’epilogo solenne e spettacolare, da un punto di vista demologico, di una sacra rappresentazione che inizia il Giovedì Santo a sera, prosegue il Venerdì con la Processione del Cristo Morto, gestita dalla Confraternita della Trinità, ed è conclusa la mattina di Pasqua dalla «corsa» della Madonna, organizzata dalla Confraternita di S. Maria di Loreto.
La prima confraternita ha sede nella chiesa omonima sita in Corso Ovidio, mentre la seconda in quella medievale di S. Maria della Tomba, riportata agli antichi splendori da recenti restauri.
Sembra che la Confraternita della Trinità abbia ereditato il patrimonio spirituale di due fra i più antichi pii sodalizi cittadini formati da laici, cioè l’Ordine de’ Continenti e quello dei Compenitenti.
I rappresentanti di quest’ultimo, gestores confraternitatis Compenitentiae, intervengono in data 10 marzo 1320 all’atto di fondazione della chiesa dell’Annunziata.2 Compito dei «confrati trinitari» era quello di promuovere beneficenza ed assistenza ospedaliera a favore di viandanti e pellegrini che trovavano ricovero nell’ospedale della SS. Annunziata, sorto nel XV sec. accanto all’omonima chiesa, e soprattutto dei forestieri, che per motivi di comercio sostavano a Sulmona.
Tale attività si inquadra nell’ambito di quelle «associazioni pie» fiorite in Italia nel Medio Evo e nell’età moderna, delle quali il primo sorgere si connette col movimento dei Flagel-lanti del 1260. Però esse non furono le più antiche. Altre associazioni le precedettero.
Prima che si realizzasse la grandiosa costruzione dell’ospedale dell’Annunziata, esistevano infatti a Sulmona altri senodochi, il più antico dei quali sembra essere quello aggregato alla chiesa di S. Giacomo della Forma, sorta nel 1177. I frati che stipulano l’atto di fondazione di tale chiesa con il vescovo Odorisio, sono ospedalieri, frates crucem portantes, appartenenti appunto all’Ordine degli Ospedalieri di S. Giovanni Gerosolimitano.
Le cause della proliferazione di tali ospedali sono lucidamente posti dal Cognasso in relazione con gli eventi della prima crociata e con la fondazione dell’ordine dell’ospedale di S. Giovanni a Gerusalemme: «La crociata determinò un’attività ospedaliera quale prima non si era avuta. I pellegrini affluiscono, sono poveri, sono ricchi. L’ospedale di S. Giovanni assicura a tutti un rifugio contro le intemperie... In occidente incominciano le donazioni da parte di pellegrini reduci da Gerusalemme e che ringraziano per la ospitalità goduta.
Non a caso questi ospedali, retti dai Geroso-limitani, «erheben sich auch entlang die apenninische Leitlinie» («sorgono anche lungo la direttrice appenninica»): i pauperes milites Christi («milites» non solo in senso religioso)sono da considerarsi infatti come avanguardia di quel movimento di traffici fra il centro‑nord ed il sud della Penisola, che fiorirà nel XIV secolo.
Non sono poche al riguardo le fonti da cui si evince un frequente passaggio di crociati lungo quell’arteria che sarà chiamata in seguito la via degli Abruzzi e di cui un punto fermo di riferimento era proprio Sulmona.
A parte alcune leggende araldiche, che sono comunque sempre significative, come per es. quella che si riferisce allo stemma di Navelli (Aq) ed ispirata al racconto del passaggio dei Crociati per la Terra Santa, è di una certa importanza la notizia del Romanelli, secondo cui nel 1194 numerose schiere di crociati, accampati alla foce del Sangro in attesa di imbarcarsi, lasciarono tracce di saccheggi e disordini.
Ora, si deve proprio ai crociati che tornavano dalla Terra Santa la diffusione di omelie drammatiche bizantine, incentrate sugli ultimi episodi della vita di Cristo (Christòs pàschon), che essi non poco dovevano ravvivare con la descrizione del Santo sepolcro e con episodi fantastici, come il preteso rinvenimento della santa lancia e di altre reliquie legate alla Passione di Cristo16. Anche Sulmona vanta il possesso di alcune di queste reliquie ed è assai probabile che la loro leggenda sia sorta, come altrove, proprio nel corso del XIII secolo. Si tratta della cinta della Madonna, della spugna con cui fu offerto a Cristo in croce l’aceto, e soprattutto di una sacra spina che sarebbe stata staccata dalla corona del Salvatore.
Quest’ultima si venerava a Sulmona nella chiesa di S. Agostino (XIII sec.) e dopo la sua distruzione in seguito al terremoto del 1706, che rovinò quasi tutta la Città, fu trasferita nella cattedrale di S. Panfilo.
Il vescovo Tiberi, che resse la Diocesi di Valva e Sulmona dal 1818 al 1829, giurò e sottoscrisse insieme al Capitolo di «aver osservato con meraviglioso stupore e veduto ocularmente nel giorno di venerdì santo, sull’ora di sesta, la mirabile fioritura della Sacra Spina di Nostro Signore Gesù Cristo, che fra le insigni reliquie si venera in questa Sacrosanta Basilica».
Portate in processione nella settimana Santa ed esposte all’adorazione dei fedeli, tali reliquie dovevano tenere non poco in fermento soprattutto i ceti popolari,incrementando così quella «febbre mistica» che è da considerarsi come cornice ideale per il sorgere di pii sodalizi laicali, la cui attività se espletata preminentemente nel campo assistenziale, non escludeva anche quello «culturale», con l’allestimento di spettacoli di soggetto sacro non sempre interpretati da monaci o chierici.
D’altro canto è proprio questo clima spirituale che sarà ereditato e potenziato da fra’ Pietro del Morrone, diventato nell’agosto del 1294 Celestino V, il papa del “gran rifiuto” dantesco, cui si deve l’istituzione di quei «rampolli nobilissimi delle fratellanze per laici».
Si diceva in precedenza, che la sacra rappresentazione scaturisce, attraverso lente e complesse elaborazioni, dal dramma liturgico medievale, di soggetto sacro: «Il mutamento, per il quale il Dramma liturgico, nato già dal canto alterno e dal cerimoniale ecclesiastico, fece capo a quella nuova forma, che designeremo di preferenza col nome italiano di Sacra Rappresentazione, fu anch’esso fenomeno naturale e quasi necessario. Offerto alle plebi in cambio dei ludi teatrali, doveva il Dramma liturgico necessariamente diventare qualche cosa di simile a codesti spettacoli, dei quali non erasi del tutto perduta la memoria».
Un momento importante nella storia del dramma liturgico è costituito dalla sostituzione del latino con il volgare, il cui uso, nella rappresentazione sacra, «comunque incominciato e affermatosi, ebbe una portata immensa. Per esso, il clero cessava di essere l’unico artefice o, che si abbia a dire, l’unico impresario del teatro. La poesia drammatica usciva dal chiuso del presbiterio e dall’aula scolastica, per irrompere nella piazza».
Ora, uno dei più importanti «frammenti» di dramma liturgico, risalente alla metà del XIV sec. e studiato da tutti gli autori che, a vario titolo, si sono interessati in Italia ed altrove delle origini del teatro, è noto come Officium quarti militis ed è conservato presso l’archivio della Cattedrale di Sulmona. La conoscenza dell’Officium si deve a due insigni storici sulmonesi: N.F. Faraglia, che lo scoprì nell’archivio suddetto, e G. Pansa, che lo pubblicò appena avutane notizia dal Faraglia.
Monumento mirabile della vita religiosa e culturale sulmonese agli albori dell’Umane-simo, l’Officium ci mostra la parte recitata da quattro soldati in una rappresentazione della Passione di Cristo, indicato nel testo con Jesus, Christus ed anche il nome di Persona. Ma poiché nel gruppo emerge il ruolo svolto da uno di essi, e precisamente il quarto, ilframmento del dramma viene designato appunto Officium quarti militis. In esso appare anche un personaggio di nome Tristainus. A costui vengono attribuite molte qualità appartenenti all’eroe omonimo descritto nel poema di Gottfried von Strassburg ed il De Bartholomaeis, mentre resta «stupito di ritrovare qui un nome celeberrimo», ritiene che «la trovata non poteva venire in mente se non ad alcuno che vivesse in un ambiente saturo di letteratura cavalleresca, particolarmente breto-ne».
Se, dunque, la parte del quarto soldato risulta nel frammento sulmonese di ben 136 versi, si può immaginare, come è stato sottolineato da più parti, quanto esteso dovesse essere il dramma intero ed il numero degli attori che davano vita ai personaggi del ciclo della Passione. Il fenomeno del resto è europeo. Otto Mann ci dice per es. che «un’antica rappresentazione redatta a Francoforte intorno al 1350, si svolgeva in due giorni ed in un’altra eseguita verso il 1500 nella città di Alsfeld, comparivano 172 personaggi e risultava composta da più di 8000 versi».
Precisato allora sull’insegnamento del Toschi, che per dramma liturgico debba intendersi ogni «rappresentazione medioevale di soggetto sacro composta in latino»,si pone la domanda se le odierne sacre rappresentazioni, e soprattutto quelle che si svolgono nella settimana di Pasqua, siano da considerarsi come «viventi reliquie» del primo e, quindi, se vi siano nel nostro caso dei rapporti fra l’Officium quarti militis e la rappresentazione della Madonna che scappa in piazza. Al riguardo notiamo subito con il D’Ancona che «non sempre è agevole il riconoscere se queste fogge locali abbiano la loro origine in usi liturgici od in veri e propri spettacoli drammatici. Anzi le rappresentazioni mute appartengono a età più tarda... e per più di un indizio rammentano i tempi della dominazione spagnuola e dell’Inquisizione». Ed è proprio a questa considerazione del D’Ancona che si ispira la nostra ricerca, tanto più che, come è stato autorevolmente affermato, «di vere e proprie rappresentazioni sacre non si raccoglie a Napoli alcuna traccia fino alla metà del Quattrocento». Date comunque le incertezze che emergono da fonti storiche al riguardo estremamente povere di notizie, il presente lavoro non intende considerarsi definitivo, ma vuole essere invece un primo tentativo, anche a livello bibliografico, diretto a sgombrare dall’orizzonte etnografico quelle nubi che avvolgono ancora la sacra rappresentazione sulmonese. Da alcuni archivi parrocchiali cittadini, cui non ci è stato concesso di «ficcar lo viso a fondo», potevano forse provenire importanti contributi diretti ad illuminare alcuni aspetti diacronici della Madonna che scappa.
È auspicabile pertanto che altri, sulla base di nuovi documenti, riprendano in futuro lo studio di questo interessante capitolo di religiosità popolare, di cui si è cercato di evidenziare, con metodo comparativo, i caratteri comuni ad altre sacre rappresentazioni, ancora vive o passate in disuso in molte località dell’Italia meridionale.
Noi abbiamo considerato la manifestazione di Pasqua come l’ultimo tassello di un mosaico la cui composizione inizia la sera del Giovedì santo con la visita ai Sepolcri. Alcuni particolari potranno sembrare certamente superflui ai Sulmonesi, ma si giustificano se si pensa che questo lavoro è destinato soprattutto ai turisti che affollano la nostra Città nella settimana di Pasqua.
Questa esigenza, da noi ritenuta opportuna, ha notevolmente ridotto il piano iniziale dell’opera, concepito in un quadro storico capace soprattutto di evidenziare le condizioni socio‑ economiche che sono alla base del sorgere delle «Confraternite». Comunque, pur nei limiti sopraddetti, dovuti ad intenti divulgativi, la ricerca si presenta ricca di note di carattere folklorico e nell’agile impostazione risente dei preziosi suggerimenti di Alfonso Di Nola, titolare della Cattedra di Storia delle Religioni all’Università di Napoli, che in tale sede ringrazio vivamente.